Ghost in the Shell (2017) – Recensione

Ghost in the Shell (2017) - Recensione

In un futuro remoto e completamente dominato dalla tecnologia il Maggiore Mira Killian fa parte della Sezione 9, unità antiterroristica gestita dalla Hanka Robotics, colosso degli impianti cibernetici. È l’unica sopravvissuta ad un attacco terroristico che ha causato la perdita del suo corpo, ora completamente robotico ad eccezione del cervello. La sua squadra si troverà ad affrontare un misterioso hacker che minaccia la Hanka Robotics.

Questo è il tanto atteso live action tratto da Ghost in the Shell, film cult dai toni cyberpunk e diretto da Mamoru Oshii che ha ispirato opere del calibro di Matrix. Quando ci si ritrova a dover adattare opere importanti sotto forma di remake, si sa, le aspettative saranno alte e il rischio di toppare anche. Figurarsi quando il remake è anche un live action. Chi si ricorda di Dragon Ball Evolution?

Partiamo dal principio: Ghost in the Shell è un manga, l’opera originale di Shirow Masamune che ha ispirato due film diretti da Mamoru Oshii e ritenuti intoccabili (in particolar modo il primo). Correva l’anno 2008 quando Stephen Spielberg e la DreamWorks acquistarono i diritti per un live action. Dopo qualche anno di silenzio e di sceneggiatori che andavano e venivano (mi piace immaginarli con le mani nei capelli), nel 2014 venne finalmente annunciato il regista: trattasi di Rupert Sanders (già regista di “Biancaneve e il Cacciatore”). Tuttavia, al momento delle scelte di casting sono scoppiate le polemiche; la più animata riguardante la Johansson, che si sarebbe trovata ad interpretare un cyborg giapponese. Si è parlato di “whitewashing”, la pratica cinematografica dell’assegnare ad un attore bianco il ruolo di un personaggio originariamente di un’altra etnia al fine di rendere il film più appetibile al grande pubblico. Questo remake è stato difeso, smontato, elogiato e attaccato ancor prima che uscisse.

Il tempo sufficiente c’è stato, il budget anche – parliamo della bellezza di 110 milioni di dollari. Quindi, alla fine, com’è questo live action?

1 – È un film esteticamente bello, su questo non si discute. Gli effetti speciali sono un grande punto di forza, ho apprezzato particolari come la città illuminata e decorata da grandi ologrammi pubblicitari e pesci rossi che “nuotano” per le strade. Il Fuchikoma che attacca Mira/Motoko nello scontro finale del film è inquietante e realistico al punto giusto. L’ambientazione è molto cyberpunk e il regista ha un apprezzabile gusto estetico.

2 – Scarlett Johansson è stata una buona scelta nel ruolo del Maggiore, non è nuova a ruoli “non umani” (basti pensare ai suoi personaggi in Her e Lucy) e mi ha ricordato la Motoko Kusanagi di Stand Alone Complex. Forse avremmo potuto apprezzarla meglio con dei dialoghi più complessi.

3 – Pilou Asbaek all’inizio non mi convinceva, per Batou ci avrei visto più un omone come Dolph Lundgren negli anni d’oro. Ho cambiato idea dopo dieci minuti.

4 – Essendo PG-13, non c’è il gore robotico. Mi spiace.

5 – Per le stesse ragioni non vedrete la Johansson nuda. Mi spiace di nuovo.

6 – Passiamo all’anima del film. Nessuno si aspettava che l’originale venisse copiato in tutto e per tutto nel live action, sia chiaro. Lo stesso film di Oshii è un riadattamento del manga: il regista ha aggiunto del suo, ma senza snaturare i temi, perché riadattare non è di per sè una cosa negativa (anzi, può essere una svolta interessante ad una trama che credevamo di conoscere), purché sia fatto bene. Ed è qui che il Ghost in the Shell di Sanders ha fallito: il film è disseminato di tante strizzatine d’occhio ai fan della serie e brevi scene riprese fedelmente dall’originale di Oshii – tutte “casualmente” infilate nel trailer – che a volte paiono inserite abbastanza a casaccio e solo per estetica. Questo riadattamento non ha fatto altro che privare il film di tutta la profondità che contraddistingue il franchise con una trama debole e banale, che narra una storia autoconclusiva e guarnita da colpi di scena prevedibili la quale non si prende la briga di andare oltre ed esplorare temi come la filosofia dell’identità o la questione del rapporto tra uomo e macchina – o in alternativa trovare qualcosa di originale o vagamente degno di nota da narrare a chiunque abbia pagato il biglietto. Ovviamente, essendo destinato al grande pubblico nessuno si aspettava che mantenessero completamente intatto il tema filosofico… Il Ghost di Oshii è un film complesso e ricco di particolari, tanto da necessitare più visioni per essere compreso appieno. In questo caso invece si sembra esser passati da un estremo all’altro, con un film un po’ sempliciotto che sembra essere destinato ad uno spettatore pigro che ha bisogno di essere imboccato passo passo per non perdersi per strada.

6 – Takeshi Kitano, che interpreta Aramaki, recita completamente in giapponese coi sottotitoli. Trovata carina, peccato che lui abbia la faccia da “chi me l’ha fatto fare” per tutta la durata del film.

7 – Molta estetica, poca sostanza. “A shell without a ghost”.

Un bel guscio senza uno spirito

Nonostante tutto ciò, il Ghost in the Shell di Sanders è godibile entro certi limiti. È un action movie semplice, da guardare dimenticando ogni pretesa (specialmente se si è fan del franchise) e cercando di reprimere il dispiacere nel constatare che si sarebbe potuto fare molto di più. Il film è costato molto – come ho detto prima, 110 milioni di dollari che non sono esattamente chiacchiere – e ad oggi al botteghino ne ha incassati solamente 7. Sembrerebbe un bel flop quindi, nonostante l’hype diffuso e la pubblicità. Vale la pena andarlo a vedere? Ni: i problemi sono quelli che ho elencato, ma data la resa degli effetti speciali sul grande schermo e le tariffe interessanti di molti cinema per gli spettacoli pomeridiani, si potrebbe provare.

Bello, ma non perfetto